UN GIALLO PARTICELLARE
«Quer pasticciaccio …» è un romanzo dal sapore indefinito
coltiva aspettative e promette conseguenze
che puntualmente trasgredisce nel corso della lettura…
si compiace di minuti dettagli, irrilevanti per la risoluzione dell’intrigo delittuoso
brulica di invenzioni grammaticali, si nutre di dialetti, genera lessico.
L’ambientazione (casuale?) è nell’anno 1927,
quando il fisico Werner Heisenberg enuncia il Principio di Indeterminazione
sull’impossibilità di conseguire assolute certezze di conoscenza;
principio formalmente inscritto nella realtà stessa, dunque non emendabile … .
Il romanzo – anch’esso avaro di certezze e sostanzialmente insoluto –
si dibatte in analisi minuziose di un’umanità solo abbozzata,
spesso scrutata da lontano e atomizzata: …«Lui se chiama Diomede, er mi’ regazzo.
Mo in dove sta de casa nun lo so. Gira sempre»;
oppure la domestica dei Balducci Assun(Tina) Crocchiapani
che spunta appena nelle prime pagine del racconto e presto si dimentica …
ma destinata a chiuderne poi le ultime battute, con un grido:
« No, nun so’ stata io! »
Un pasticciaccio, che tuttora si ritrova in architetture non certo “d’oro”
svettanti tra “gli affastellati della via Merulana”, sgraziati cumuli di ‘stili’ inesistenti
– come sul fianco di un neogotico S. Alfonso in sfida altimetrica al celtico pennone –
e solo a pochi isolati dal «casermone color pidocchio» dell’ing. Gadda.
Anche il romanzo sovrappone … stili e costumi
ricchezze senza merito e povertà senza tempo, destinate a convivere
come le nipoti-figliastre-serve di Liliana Balducci,
nell’impossibilità di pervenire ad una reciproca accettazione. (a.m. I’24)
.|||||.
… Già in quer gran palazzo der ducentodicinnove nun ce staveno che signori grossi: quarche famija der generone(*): ma soprattutto signori novi de commercio, de quelli che un po’ d’anni avanti li chiamaveno ancora pescicani.
E il palazzo, poi, la gente der popolo lo chiamaveno er palazzo dell’oro. Perché tutto er casamento insino ar tetto era come imbottito de quer metallo. Drento poi, c’ereno du scale, A e B, co sei piani e co dodici inquilini cadauna, due per piano. Ma il trionfo più granne era su la scala A, piano terzo, dove che ce staveno de qua li Balducci ch’ereno signori co li fiocchi pure loro, e in faccia a li Balducci ce steva na signora, na contessa, che teneva nu sacco ‘e solde pure essa, na vedova: la signora Menecacci: che a cacciaje na mano in quarziasi posto ne veniva fori oro, perle, diamanti: tutta la robba più de valore che ce sia. E fogli da mille come farfalle: perché a tenelli a la banca nun se sa mai: quanno meno te l’aspetti po pijà foco. Sicché, ciaveva er commò cor doppio fonno.
… « Ci andate voi, Ingravallo, a via Merulana? Vedete nu poco. Na fesseria, m’hanno detto. E stamattina, con chell’ata storia della marchesa di viale Liegi… e poi ‘o pasticcio ccà vicino, alle Botteghe Oscure: e poi chilo buchè ‘e violette: …
« Jàmmoce, » disse Ingravallo, e poi borbottò: « Jamecenne », e prese giù, dal piolo, il cappello. Il male infitto cavicchio si disincastrò e cadde al suolo, come ogni volta, indi rotolò per un pezzetto; lui lo raccolse, rificcò la radichetta mencia dentro al buco: e con la manica dell’avambraccio, quasi fosse una spazzola, diede una lisciatina al cappello nero, così, lungo il nastro. I due agenti gli andaron dietro, quasi per un tacito ordine del commissario-capo: erano Gaudenzio, noto alla malavita come er Biondone, e Pompeo, detto invece lo Sgranfia.
Saliti sul PV e discesi appunto al Viminale, presero il tram di San Giovanni. Sicché in una ventina di minuti raggiunsero il civico ducentodicinnove.
Il palazzo dell’Oro, o dei pescicani che fosse, era là: cinque piani, più il mezzanino. Intignazzato e grigio. A giudicare da quel tetro alloggio, e dalla coorte delle finestre, gli squali dovevano essere una miriade: pescecanucoli di stomaco ardente, quest’è certo, ma di facile contentatura estetica. Vivendo sott’acqua d’appetito e di sensazioni fagiche in genere, il grigiore o certa opalescenza superna del giorno era luce, per loro: quel po’ di luce di cui avevano necessità. Quanto all’oro, be’, sì, poteva darsi benissimo ciavesse l’oro e l’argento. Una di quelle grandi case dei primi del secolo che t’infondono, solo a vederle, un senso d’uggia e di canarinizzata contrizione: be’, il contrapposto netto del color di Roma, del cielo e del fulgido sole di Roma. Ingravallo, si può dire, la conosceva col cuore: e difatti un lieve batticuore lo prese, ad avvicinare coi due agenti la ben nota architettura, investito di tanta e tanto risolutiva autorità.
Davanti al casermone color pidocchio, una folla: circonfusa d’una rete protettiva di biciclette. Donne, sporte, e sedani: qualche esercente d’un negozio di là, col grembiule bianco: un «uomo di fatica» e questo col grembiule rigato, e col naso in veste e in colore d’un meraviglioso peperone: portinaie, domestiche, ragazzine delle portinaie che strillavano «a Peppì!», maschietti col cerchio, un attendente saturo d’arance, prese in una sua gran rete, con in cima i ciuffetti di due finocchi, e di pacchi: due o tre funzionari grossi, che in quell’ora matura agli alti gradi avevano appena disciolto le vele: diretti, ciascuno, al suo ministero: e un dodici o quindici tra perdigiorno e vagabondi vari, diretti in nessun luogo. Un portalettere in istato di estrema gravidanza, più curioso di tutti, dava, della sua borsa colma, in culo a tutti: che borbottavano mannaggia, e poi ancora mannaggia, mannaggia, uno dopo l’altro, man mano che la borsona perveniva ad urtarli nel didietro. Un monello, con serietà tiberina, disse: «Sto palazzo, drento c’è più oro che monnezza.» …
––––––––––––––––––––––––––––
(*) Galeazzo Ciano, genero di M.
C. E. Gadda - Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Adelphi Ed. 2018 estratti dalle pgg. 16 – 25 – 26