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MARCOVALDO

Mar­co­val­do, è un sog­get­to pre­ca­rio nel pae­sag­gio cittadino;
il suo spi­ri­to si ali­men­ta di rifu­gi, di nic­chie e ter­ri­to­ri negletti
tut­ti luo­ghi ai mar­gi­ni del­la cit­tà ordinata.
Par­teg­gia con ogni cosa si gua­da­gni l’esistenza a fatica. 
Per que­sto non si arren­de, per­ché anche negli affanni
rie­sce a pre­sta­re atten­zio­ne a quel silen­zio­so microcosmo
che in ogni luo­go – fos­se il più ina­de­gua­to e precario –
rischia quo­ti­dia­na­men­te di soccombere,
osti­nan­do­si in una soprav­vi­ven­za urbana.
Dai fun­ghi alla neb­bia; dal­la neve agli uccel­li alle…vespe,
alle muc­che o alla legna da ardere.

Tut­to ciò che costi­tui­sce un pro­ble­ma per il qua­le la città 
si inge­gna a libe­rar­si o aggirarlo,
per Mar­co­val­do diven­ta una sfi­da alla convivenza,
da con­trap­por­re all’o­mo­lo­ga­zio­ne e rea­gi­re all’estinzione.
Con­ce­de­re digni­tà al poco che rap­pre­sen­ta la ter­ra, la piog­gia e la vegetazione,
ren­de strug­gen­te ogni gesto del protagonista.

Ma l’idillio «cam­pe­stre» si dimo­stra sem­pre penoso, 
rischio­so e poco indul­gen­te con Mar­co­val­do, pro­prio come l’idillio «indu­stria­le»;
entram­bi lo tal­lo­na­no come un’om­bra incle­men­te nel gri­gio urbano
per il qua­le sono super­flui la ter­ra, la piog­gia, il cie­lo e … l’a­ria. (a.m. XI/’22)

LA PIOGGIA E LE FOGLIE
     … La pian­ta (così, sem­pli­ce­men­te, essa era chia­ma­ta, come se ogni nome più pre­ci­so fos­se inu­ti­le in un ambien­te in cui a essa sola toc­ca­va di rap­pre­sen­ta­re il regno vege­ta­le) era entra­ta nel­la vita di Mar­co­val­do tan­to da domi­na­re i suoi pen­sie­ri in ogni ora del gior­no e del­la not­te. Lo sguar­do con cui egli ora scru­ta­va in cie­lo l’addensarsi del­le nuvo­le, non era più quel­lo del cit­ta­di­no che si doman­da se deve o no pren­de­re l’ombrello, ma quel­lo dell’agricoltore che di gior­no in gior­no aspet­ta la fine del­la sic­ci­tà. E appe­na, alzan­do il capo dal lavo­ro, scor­ge­va con­tro­lu­ce, fuor del­la fine­strel­la del magaz­zi­no, la cor­ti­na di piog­gia che ave­va comin­cia­to a scen­de­re fit­ta e silen­zio­sa, lascia­va lì tut­to, cor­re­va alla pian­ta, pren­de­va in brac­cio il vaso e lo posa­va fuo­ri, in cortile. …
Fini­to l’orario di lavo­ro, biso­gna­va chiu­de­re la dit­ta. Mar­co­val­do chie­se al magaz­zi­nie­re-capo: – Pos­so lasciar fuo­ri la pian­ta, lì in cor­ti­le? Il capo, signor Vili­gel­mo, era un tipo che rifug­gi­va dal­le respon­sa­bi­li­tà trop­po one­ro­se. – Sei mat­to? E se la ruba­no? Chi è che ne rispon­de? Mar­co­val­do però, a vede­re il pro­fit­to che la pian­ta trae­va dal­la piog­gia, non si sen­ti­va di rimet­ter­la al chiu­so: sareb­be sta­to spre­ca­re quel dono del cie­lo. – Potrei tener­la con me fino a domat­ti­na… – pro­po­se. – La cari­co sul por­ta­pac­chi e me la por­to a casa… Così le fac­cio pren­de­re più piog­gia che si può…
Il signor Vili­gel­mo ci pen­sò un poco, poi con­clu­se: – Vuol dire che ne rispon­di tu, – e assentì.
Mar­co­val­do attra­ver­sa­va la cit­tà sot­to la piog­gia dirot­ta, cur­vo sul manu­brio del­la sua bici­clet­ta a moto­re, incap­puc­cia­to in una giac­ca-a-ven­to imper­mea­bi­le. Die­tro, sul por­ta­pac­chi, ave­va lega­to il vaso, e bici uomo pian­ta pare­va­no una cosa sola, anzi l’uomo ingob­bi­to e infa­got­ta­to scom­pa­ri­va, e si vede­va solo una pian­ta in bicicletta. …
A casa – una man­sar­da col davan­za­le sui tet­ti – appe­na Mar­co­val­do arri­vò col vaso tra le brac­cia, i bam­bi­ni pre­se­ro a fare girotondo.
– L’albero di Nata­le! L’albero di Nata­le! Ma no, cosa vi vie­ne in men­te? C’è tem­po a Nata­le! – pro­te­sta­va Marcovaldo. 
– Atten­ti alle foglie che sono delicate!
– Già in que­sta casa ci stia­mo come in una sca­to­la di sar­di­ne, – bron­to­lò Domi­til­la. – Se ci por­ti pure un albe­ro, dovre­mo usci­re noi… Ma se è una pian­ti­na! La met­to sul davanzale…
Ma con tut­to che l’avesse pen­sa­to, apren­do la fine­stra al mat­ti­no non pote­va cre­de­re ai suoi occhi: la pian­ta ora ingom­bra­va mez­za fine­stra, le foglie era­no per lo meno rad­dop­pia­te di nume­ro, e non più recli­na­te sot­to il loro peso ma tese e aguz­ze come spa­de. Sce­se le sca­le col vaso stret­to al pet­to, lo legò al por­ta­pac­chi e cor­se in dit­ta. Era spio­vu­to, ma la gior­na­ta rima­ne­va incer­ta. Mar­co­val­do non era anco­ra sce­so di sel­la, quan­do ripre­se a casca­re qual­che goc­cia. «Visto che le fa così bene, la lascio anco­ra in cor­ti­le» pen­sò lui. In magaz­zi­no, ogni tan­to anda­va a met­te­re il naso fuo­ri del­la fine­strel­la che dava sul cor­ti­le. Que­sto suo distrar­si dal lavo­ro, al magaz­zi­nie­re-capo non gar­ba­va. – Be’, cosa ci hai oggi, da guar­da­re fuo­ri? Cre­sce! Ven­ga a vede­re anche lei, signor Vili­gel­mo! – e Mar­co­val­do gli face­va cen­no con la mano, e par­la­va qua­si sot­to­vo­ce, come se la pian­ta non doves­se accor­ger­se­ne. – Guar­di come cre­sce! Neh, che è cresciuta?
Sì, è cre­sciu­ta un bel po’, – ammi­se il capo, e per Mar­co­val­do fu una di quel­le sod­di­sfa­zio­ni che la vita in dit­ta riser­va ben di rado al per­so­na­le. Era saba­to. Il lavo­ro ter­mi­na­va all’una e fino al lune­dì non si tornava.
Mar­co­val­do avreb­be volu­to ripren­de­re la pian­ta con sé, ma ormai, non pio­ven­do più, non sape­va che scu­sa tro­va­re. Il cie­lo però non era sgom­bro: nubi nere, a cumu­li, era­no spar­se un po’ qua e un po’ là. Andò dal capo, che, appas­sio­na­to di meteo­ro­lo­gia, tene­va appe­so sopra il suo tavo­lo un barometro.
– Come si met­te, signor Viligelmo?
– Brut­to, sem­pre brut­to, – lui dis­se. – Del resto, qui non sta pio­ven­do, ma nel quar­tie­re dove abi­to sì: ho tele­fo­na­to ora a mia moglie.
– Allo­ra, – s’affrettò a pro­por­re Mar­co­val­do, – io por­te­rei la pian­ta a fare un giro dove pio­ve, – e det­to fat­to tor­nò a siste­ma­re il vaso sul por­ta­pac­chi del­la bici. …
Il lune­dì Mar­co­val­do si pre­sen­tò al signor Vili­gel­mo a mani vuo­te. – E la pian­ta? – chie­se subi­to il magazziniere-capo.
– È fuo­ri. Ven­ga. Dove? – fece Vili­gel­mo. – Non la vedo. È quel­la lì. È cre­sciu­ta un po’… – e indi­cò un albe­ro che arri­va­va al secon­do pia­no. Era pian­ta­to non più nel vec­chio vaso ma in una spe­cie di bari­le, e al posto del­la bici­clet­ta Mar­co­val­do ave­va dovu­to pro­cu­rar­si un moto­ci­clo a fur­gon­ci­no. – E ades­so? – s’infuriò il capo. – Come pos­sia­mo far­la sta­re nell’ingresso? Non pas­sa più dal­le por­te Mar­co­val­do si strin­se nel­le spalle.
– L’unica, – dis­se Vili­gel­mo, – è resti­tuir­la al viva­io in cam­bio d’un’altra dal­le dimen­sio­ni giuste!
Mar­co­val­do rimon­tò in sel­la. – Vado.
Rico­min­ciò la cor­sa per la cit­tà. L’albero riem­pi­va di ver­de il cen­tro del­le vie. I vigi­li, pre­oc­cu­pa­ti per il traf­fi­co, lo fer­ma­va­no a ogni incro­cio; poi – quan­do Mar­co­val­do spie­ga­va che sta­va ripor­tan­do la pian­ta al viva­io per toglier­la di mez­zo – lo lascia­va­no pro­se­gui­re. Ma, gira gira, Mar­co­val­do la stra­da del viva­io non si deci­de­va a imboc­car­la. Di sepa­rar­si dal­la sua crea­tu­ra, ora che l’aveva tira­ta su con tan­ta for­tu­na, non ave­va cuo­re: nel­la sua vita gli pare­va di non aver mai avu­to tan­te sod­di­sfa­zio­ni come da que­sta pian­ta. Così con­ti­nua­va a far la spo­la per vie e piaz­ze e lun­go­fiu­mi e pon­ti. E una ver­zu­ra da fore­sta tro­pi­ca­le dila­ga­va fino a coprir­gli la testa le spal­le le brac­cia, fino a far­lo scom­pa­ri­re nel ver­de. E tut­te que­ste foglie e gam­bi di foglia ed anche il fusto (che era rima­sto sot­ti­lis­si­mo) oscil­la­va­no oscil­la­va­no come per un con­ti­nuo tre­mi­to, sia che scro­sci di piog­gia anco­ra scen­des­se­ro a per­cuo­ter­li, sia che le goc­ce si faces­se­ro più rade, sia che s’interrompessero del tutto.
Spiov­ve. Era l’ora ver­so il tra­mon­to. In fon­do alle vie, nel­lo spa­zio tra le case, si posò una luce con­fu­sa d’arcobaleno. La pian­ta, dopo quell’impetuoso sfor­zo di cre­sci­ta che l’aveva tesa fin­ché dura­va la piog­gia, si tro­vò come sfi­ni­ta. Mar­co­val­do con­ti­nuan­do la sua cor­sa sen­za meta non s’accorgeva che die­tro di lui le foglie a una a una pas­sa­va­no dal ver­de inten­so al giallo, …

N.Y.  1989  – archi­vio a.m.

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Ita­lo Cal­vi­no – MARCOVALDO 
ed. Oscar MONDADORI 1993    –   estrat­to da pgg. 85–92  

cor­si­vi a.m.

 

Pubblicato in S.T. DREAMs