Un poeta del minuscolo e del quotidiano Hernández,
poeta dell’intimo e del non detto come massimamente significante,
dell’assenza piuttosto che della presenza.
Personaggi, oggeti o arredi, pur essendo strutturali alla rappresentazione
e solidi come un palcoscenico che si protende
sono evanescenti e incerti, cambiano con le vibrazioni di luce e di suono,
hanno vita propria e indipendente, ognuno, da ciò che sta loro attorno.
La luce stessa non ha precisa direzione ed il chiarore della stanza è privo di contrasti.
I suoni e le presenze sono ovattate, levitate dal contesto
e dal palco su cui si manifestano, agiscono e si esprimono.
‘Antico’ è il ‘salone’ che pare senza pareti o confini palpabili; quel po’ di sole illumina ‘i cari estinti’;
la lettura è ‘distratta’, lo sguardo altrove, la trama del suo racconto tragi/comica
e gli ascoltatori sbucano da una animata penombra descrittiva.
Il pianoforte non fa che preludere ad un’uscita di scena
da un luogo da cui gli invitati si estraniano a rallentatore,
smorzando prima i toni di voce e poi allontanandosene fisicamente
come se fossero (essi stessi) frazioni di eventi che non vogliono concludersi,
che si svolgono tutti nel medesimo presente, in un tempo senza orologi,
scandito solo secondo relazioni tra il prima e il dopo. [a.m. IV’22]
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Molto tempo fa stavo leggendo un racconto in un antico salone. All’inizio, da una delle persiane entrava un po’ di sole. Poi si era lentamente allungato su alcune persone, fino a raggiungere un tavolo con sopra i ritratti di cari estinti. Mi riusciva difficile tirar fuori le parole dal corpo, come da uno strumento con i mantici rotti. Nelle prime sedie c’erano due vedove, le padrone di casa; avevano una bella età, ma i capelli degli chignon erano ancora folti. Leggevo di malavoglia e alzavo continuamente la testa dalla pagina, ma dovevo stare attento a non guardare sempre la stessa persona; i miei occhi si erano già abituati a volgersi di continuo verso la pallida regione che si trovava tra l’abito e lo chignon di una delle vedove. …
Una delle volte in cui mi ero distratto, attraverso le persiane vidi alcuni colombi muoversi sopra una statua. Poi scorsi, in fondo al salone, una giovane donna con la testa appoggiata alla parete; la sua chioma ondulata era completamente sciolta e io la percorrevo con gli occhi come se guardassi una pianta cresciuta contro il muro di una casa abbandonata. Non mi andava di dover capire di nuovo quel racconto e trasmetterne il significato; ma a volte le parole e l’abitudine a pronunciarle facevano effetto senza che intervenissi, e le risate degli ascoltatori mi stupivano. Stavo di nuovo lasciando scorrere lo sguardo sulla testa appoggiata alla parete e pensai che forse la donna se n’era accorta; allora, per non essere indiscreto, guardai verso la statua. … . A un tratto mi accorsi che stavo di nuovo guardando la testa appoggiata alla parete e che in quell’istante aveva chiuso gli occhi. Così mi sforzai di ricordare l’entusiasmo provato le prime volte che avevo letto quel racconto; narrava di una donna che ogni giorno andava su un ponte con la speranza di potersi suicidare. Ma ogni giorno sorgeva qualche ostacolo. I miei ascoltatori risero quando arrivai al punto in cui, una sera, qualcuno le faceva una proposta e la donna, spaventata, correva a casa. Anche la donna della parete rideva e girava la testa sul muro come fosse sdraiata su un cuscino. …
Tra quelli che ascoltavano c’era un giovane che aveva qualcosa di strano sulla fronte: una striscia scura nel punto in cui cominciano i capelli; e il medesimo colore — simile a quello di una fitta barba appena rasata e incipriata — gli formava grandi stempiature sulla fronte. Guardai la donna dalla chioma sciolta e notai con sorpresa che anche lei fissava i miei capelli. …
… una delle vedove mi presentò alla ragazza: a quanto pareva era sua nipote. Mi invitarono a sedere su un grande sofà a tre posti; la nipote si mise da una parte e il giovane con la fronte pelata dall’altra. La nipote fece per parlare, ma il giovane la interruppe. Aveva alzato una mano con le dita verso l’alto come lo scheletro di un ombrello rovesciato dal vento e disse: «Intuisco in lei una persona solitaria che si accontenterebbe dell’amicizia di un albero.»
Pensai che si fosse rasato così perché la sua fronte apparisse più ampia, e risposi malignamente: «Non creda; non potrei invitare un albero a fare due passi.» Ridemmo tutti e tre. …
E mentre ridevamo, lei disse che voleva farmi una domanda … «Mi dica la verità: perché la donna del suo racconto si è suicidata?» «Eh, bisognerebbe chiederglielo!» «E lei non potrebbe farlo?» «Sarebbe impossibile, come chiedere qualcosa all’immagine di un sogno.» Lei sorrise e abbassò gli occhi. Così potei guardarle la bocca, che era molto grande. Il movimento delle labbra, che si allungavano verso i lati, sembrava non finire più; ma i miei occhi esaminavano con piacere quella distesa di rosso umida Forse vedeva attraverso le palpebre, o pensava che quel mio silenzio non promettesse nulla di buono, perché chinò ancora di più la testa e nascose il volto. Ora mostrava tutta la massa dei capelli; …
Mi chiesero di suonare il piano. Quando tornai nel salone, la vedova dagli occhi affumicati era a capo chino e ascoltava quello che le stava dicendo la sorella, con insistenza. Il piano era piccolo, vecchio e scordato. Io non sapevo che fare; ma appena cominciai a provarlo, la vedova con gli occhi affumicati scoppiò in lacrime e tutti tacemmo. La sorella e la nipote la portarono di là, e poi la nipote venne a dirci che dopo la morte del marito la zia non voleva più sentire musica — si erano amati fino a raggiungere l’innocenza. Gli invitati cominciavano ad andarsene. E quelli rimasti parlavano a voce sempre più bassa, a mano a mano che la luce se ne andava. Nessuno accendeva le lampade.
Io me ne stavo andando tra gli ultimi, inciampando nei mobili, quando la nipote mi fermò: «Devo chiederle una cosa.» Ma non disse niente: appoggiò la testa alla parete dell’atrio e mi prese per la manica della giacca.
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Felisberto Hernández – NESSUNO ACCENDEVA LE LAMPADE
ed. La Nuova Frontiera 2021 – pgg. 5–11 • trad . Francesca Lazzarato