É uomo o è fumo ?
Peralà è senz’altro fumo; uscito da un camino e caduto in un paio di stivali
che gli permettono, questi solamente, di muoversi nel mondo.
Attraversa un’esistenza ‘umana’ per un breve tratto e tumultuosamente;
ricercatissima superstar prima e galeotto poi,
deve sottrarsi alla sua prigionia ed al mondo uscendo nuovamente dal camino.
La vicenda non è altro che una scusa affascinante per Palazzeschi
per divertirsi nel ‘surrealismo’ e nel futurismo,
delle vicende del tempo di inizio secolo nelle arti e nelle scienze
un attimo prima (è del 1911) delle imminenti catastrofi.
Perelà vive in un tempo presente ‘mobile’ e indefinito, anch’esso di fumo,
disputabile ed «aereo», certamente poco terreno.
D’altra parte chi può identificare la concretezza del presente ?
Ciascuno può affermare di poterlo con certezza acciuffare
facendo sfumare la sua esistenza nella persistenza del ricordo,
ma nessuno può spingersi oltre, perché la durata del presente
– come il riverbero di un gong – è puramente soggettiva, locale
e non misurabile; quando il presente si nomina, esso è già trascorso
e non è più di questo mondo.
Certamente i problemi filosofici sollevati
non tanto dal leggerissimo romanzo di Palazzeschi
ma dall’epoca in cui è nato, conducono molto lontano. (a.m. nov.’22)
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… Perelà! Perelà! Perelà di qua, Pere-là di là …
Ce ne vorrebbero cinquanta di uomini di fumo per contentare tanta gente.
— Il signor Perelà sia fatto passare nella sala delle udienze, il gentiluomo di servizio introdurrà i primi arrivati.
— Il pittore della Regina Gastone Speranza.
— Eccellentissimo signor Perelà, permettetemi di presentarvi i miei omaggi e i sentimenti della mia devozione. L’onore che mi prodigate facendomi conoscere un uomo, sì, dico… un uomo come voi, è da me altissimamente considerato. Sono sicuro che risponderete affermativamente all’invito che sono per farvi: aspiro ad essere il vostro primo ritrattista: sarete il modello del mio capolavoro. Nessun ritrattista troverà mai un modello quanto voi ispiratore, e alla prossima esposizione figurerete al fianco della Regina.
Lasciate che esponga al vostro inappellabile giudizio l’ultima mia opera, quella che mi ha valso il posto che occupo. Anche perché un uomo di sì alto rango non mancherà di formare nella propria casa una vasta pinacoteca, e io conto d’annoverare il vostro nome come quello del mio cliente più illustre, dopo il nome del Sovrano, beninteso. Venite pure avanti… fermatevi: stop. Scuoprite.
Come voi potete osservare, signor Perelà, quella è una dama del sedicesimo secolo, il secolo della magnificenza e del genio, e il cavaliere che l’è dinanzi s’è appena levato di ginocchio dov’egli si trovava per sporgere la sua dichiarazione di folle amore. La nobile dama è seduta, la vedete? e accenna con l’indice della mano candida la finestra gotica con la sua mistica colonnetta, vedete quella rosa purpurea che sembra scoppiata per miracolo in una notte di attesa? La vedete?
Ecco, ella dice col nobile gesto, prendetela. E non è come gli dicesse: la vostra richiesta è coronata dal mio amore? L’attesa è finita per voi, e avrete quello che spetta ad un uomo. Il fiore che vi mancava eccolo, v’appartiene, prendetelo e conservatelo sul petto quale pegno del primo bacio. Osservate con quale occhio ella lo guarda, e con quanta gioia indica la rosa scarlatta sul davanzale della finestra mistica. Quante cose può dire un pezzo di tela. Questo quadro si chiama appunto: il cavaliere senza la rosa.
— Che cosa dice quella signora? -
« Prendete, il fiore è vostro ».
— No, no.
— No, che?
— Ella non dice come voi, ma dice invece: « signore, uscite ».
— Oh, signor Perelà, che dite mai? Non vedete che i suoi occhi brillano? E come le labbra sono avide di tenerezza e di baci?
— Non si può dire con un sorriso: « uscite », ad un uomo?
— No, no certo, come potrebbe dire così se indica la finestra?
— E non si può uscire sorridendo per una finestra?
— No, no, v’assicuro di no, è come se gli dicesse voglio vedervi rompere l’osso del collo. Ella non può dir questo, assolutamente no, ma vi pare, il significato del quadro ne uscirebbe capovolto. Vi scongiuro di non parlarne con chicchessia, voi pregiudichereste la mia opera a fondo, essa mi ha procurato il posto che occupo, e la vostra erronea interpretazione potrebbe riuscirmi fatale in questo momento… Venite pure avanti… fermatevi: stop. Ricuoprite.
— Alcuni fotografi.
— Piano, pianino, due alla volta, c’è tempo per tutti.
— Abbiate la compiacenza di voltarvi, signore.
— Io, intanto, approfitterò per il profilo.
— Vorreste sedervi?
— E far finta di leggere il giornale? Così, con molta naturalezza, come se vi trovaste seduto al caffè. Ecco, benissimo.
— E tenere fra le dita questa sigaretta. Nell’altra mano il cerino che avete tolto ora dalla scatola. Benissimo, ottima posa: meravigliosa.
— Vogliate compiacervi di accavallare le gambe in questa maniera.
— E le braccia in quest’altra. Posando il dito su questo punto. Preciso, che esattezza! — Vorreste togliervi gli stivali?
— No.
— Per rimetterli subito, bene inteso: immediatamente.
— No.
— Ve li rimetterei io stesso.
— No.
— Non vuol dire, lasciate, faremo ugualmente.
Sarebbe stato così bello per il cinematografo: utilissimo.
— No.
— Non vuol dire, scusate, lasciate pure, scusate tanto.
— Non c’è di che.
— Prego.
— Ecco.
— Grazie.
— Ossequi.
— Riverisco.
— Molto obbligato.
— Eccellentissimo.
— Illustrissimo.
— Obbligatissimo.—
— Blgtssm.… .
TREARCHI – archivio a.m. 2013
— Il banchiere di stato Teodoro Di Sostegno.
— Appena giunto a cognizione della vostra presenza in questa città, mi sono affrettato a presentarvi i miei omaggi e pregarvi al tempo stesso d’ascoltare quanto in poche parole sono per dirvi: ho udito altresì che siete giunto sprovvisto di tutto e solo in possesso di un paio di scarpe.
— Queste.
— Non si può dire ragguardevole il vostro patrimonio; vengo perciò ad offrirvi un’apertura illimitata di credito presso la mia banca: metto a vostra disposizione i miei capitali. E questo, bene inteso, non per giovare soltanto a voi, ma perché possiamo concludere associati degli ottimi affari.
— Io?
— Voi, senz’altro.
— Ma io sono di fumo.
— Proprio per questo.
— E come posso, di così umile natura, essere fonte di ricchezza?
— Amico mio, voi siete di fumo e io, in fondo, sono di carta, ogni mia azione si svolge e si compie per mezzo della carta, e badate bene, non occorre neppure che sia pulita, sovente è in condizioni da far paura, una schifezza, ora io posso dimostrarvi come due e due fanno quattro che fra la carta e il fumo la distanza è brevissima, minima. … Voi siete di fumo, io so il fumo che cos’è. E non appena ho sentito di poterne avere in natura mi sono detto subito: non c’è un minuto da perdere, … Tutte le cose possono diventare moneta sonante dentro le nostre tasche, e il fumo in proporzione illimitata. Il sole, vedete, che pare una cosa inaccessibile, mai raggiunta, non è che un grosso biglietto di banca, che se riuscirete a spicciolare potrete spendere a vostro talento. E non vi dico, poi, la luna.
— Il sole?
— Proprio lui.
— E vero, perché se fosse di moneta metallica peserebbe troppo e cadrebbe.
— Sarebbe già caduto chi sa da quanto, è un fatto ineluttabile; invece, essendo un pezzo di carta, leggerissimo, rimane sempre su, come l’aquilone. — E voi lo spicciolate?
— Non facciamo altro dalla mattina alla sera. Ecco il mio indirizzo, potete telefonarmi quando vi piaccia. …
— Il poeta Angiolino Dal Soffio. — Quando ho udito pronunciare il vostro nome per la via, passeggiavo con la mia amante, bionda come Venere e come Isotta. Il nome che sulle volgarissime labbra della plebe mi aveva lasciato indifferente, assunse su quelle di lei il vero significato. … La poesia, signor Perelà, è un mondo, un globo tutto d’oro, d’oro soltanto, di quello che non fa moneta, ed è il poeta, sul Parnaso che lo gonfia, col suo alito divino. E lo prepara per l’ascensione celeste. … Comporrò in vostro onore un inno di tredicimila versi endecasillabi e un settenario sdrucciolo, ve lo manderò pubblicato sulla più autorevole rivista del paese. Eccovi intanto il mio ultimo libro di versi: Ballate… malate. …
Aldo Palazzeschi – PERELÁ Uomo di fumo
VALLECCHI Editore 1954 – estratti dalle pgg. 27 – 33