ATENE 399 a.C.
Come siano andate veramente le cose nessuno lo può sapere,
se non filtrando gli scritti di Platone
il quale è verosimilmente orientato verso una idealizzazione
del Maestro morto di cicuta.
In epoche successive raramente processi terminati con la morte dell’imputato
hanno conseguito altrettanto profonde implicazioni storiche e filosofiche;
esempi sono quelli a Giordano Bruno ed allo stesso Gesù di Nazareth.
Così pure questa APOLOGIA – in forma di «auto-arringa» – si mantiene attuale
e capace ancora di avvincere e indurre uno stringente senso morale.
Neppure l’amico Critone (mediato ancora da Platone) riesce a contrapporre obiezioni
all’offesa che si sarebbe arrecata alle leggi stesse della propria città
assecondando la fuga che a Socrate viene proposta.
Una città a cui Egli è legato da un patto accolto in piena libertà.
Si deve fare forza alla propria sensibilità per trovare traccia – nella cultura dell’oggi –
di un’etica antica 24 secoli, secondo la quale l’esilio è più abominevole della morte.
Una morale sorretta da condotte che preferiamo attribuire piuttosto alla mitologia
dove gli dei – pur senza mostrarsi – ammoniscono e puniscono uno sgarbo con un gesto.
Ricordiamo invece che siamo di fronte ad un avvenimento
storicamente e drammaticamente reale
confermato e narrato da personalità che lo vivono e subiscono
così da fornire molte suggestioni sui percorsi seguiti dall’umanità. (a.m. IV ’24)
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… Quale testimone della mia sapienza, se ve n’è davvero una e di che natura sia, chiamerò davanti a voi il dio di Delfi. Avete conosciuto, credo, Cherefonte…(1). È stato mio amico fin dalla giovinezza e amico pure del vostro partito democratico, ha patito il recente esilio e ne è tornato insieme con voi. E sapete che tipo era Cherefonte, quanto pronto a entusiasmarsi per qualsiasi cosa. Ebbene, recatosi una volta a Delfi osò chiedere all’oracolo — vi ripeto, cittadini, non fate chiasso — chiese se vi fosse qualcuno più sapiente di me.
E la Pizia (2) rispose che non c’era nessuno. Lui è morto, ma l’episodio potrà confermarvelo suo fratello che è qui.
Badate che vi racconto queste cose per spiegarvi finalmente donde è sorta la calunnia contro di me. Allorché ho saputo di quel responso, naturalmente mi è venuto di riflettere: «Che mai vuol dire il dio, a cosa alluderà? Io per me sono consapevole di non essere sapiente affatto, per cui mi domando cosa mai intende quando dichiara che sono il più sapiente di tutti: perché senza dubbio non sta mentendo, non gli è lecito». E dopo esser stato a lungo incerto sul significato del responso, alla fine, per quanto malvolentieri, mi decisi all’indagine di cui ora vi dirò. Andai da uno di coloro che hanno fama di essere sapienti, convinto che lì meglio che altrove, con la forza dell’evidenza, avrei potuto smentire l’oracolo: «Vedi questo qui è più sapiente di me mentre tu avevi detto che lo ero io». Esaminando dunque costui (non occorre che ne faccia il nome, era a ogni modo uno dei nostri politici, cittadini ateniesi, …), mi parve che quest’individuo apparisse, sì, sapiente a molti e soprattutto a se stesso, ma non lo fosse realmente. Allora cercai appunto di fargli notare che si credeva sapiente senza esserlo, attirandomi cosi l’ostilità non solo sua ma di gran parte dell’uditorio. Nel tornarmene via mi resi conto che sì, più sapiente di quell’uomo lo ero: forse nessuno di noi due sapeva alcunché di bello e di buono, ma almeno, mentre lui riteneva di sapere e non sapeva, io non sapevo ma neanche presumevo di sapere: mi sembrava perciò di essere, come minimo, più sapiente di lui per il semplice fatto che, quel che non so, neanche m’illudo di saperlo. Recatomi poi da un altro, scelto fra quelli con fama di essere più sapienti del precedente, ne ricavai la stessa impressione e anche lì mi attirai l’ostilità sua e di parecchi altri. …
Bisogna davvero che vi descriva tutto il mio vagabondare, le fatiche enormi affrontate per convincermi dell’irrefutabilità dell’oracolo. Dopo i politici, infatti, sono andato dai tragici, dai compositori di ditirambi e dagli altri poeti, aspettandomi di cogliere in flagrante me stesso, lì, come più ignorante di loro. E prendendo in mano, fra i loro poemi, quelli che mi parevano più elaborati, chiedevo loro di spiegarmeli, contando fra l’altro di imparare qualcosa. … Non mi ci volle molto per capire che anche i poeti facevano quel che facevano non per sapienza, ma per un qualche talento naturale e trascinati dall’entusiasmo, come gli indovini e vaticinatori: i quali dicono appunto molte belle cose, senza saperne nulla. … Anche di lì, quindi, mi allontanai convinto di esser loro superiore, per la stessa ragione per cui lo ero rispetto ai politici.
Alla fine andai dai lavoratori manuali: mentre per conto mio ero consapevole di non conoscere praticamente nulla, costoro prevedevo di trovarli in possesso di parecchie preziose conoscenze. E qui non mi sbagliavo, … . Ma, Ateniesi, scoprii che anche i buoni artigiani incorrevano nello stesso errore dei poeti …, con una presunzione che finiva per offuscare il loro effettivo sapere: cosicché mi chiesi, per salvare il senso dell’oracolo, se preferivo rimanere così com’ero, senza essere sapiente di quel loro tipo di sapienza ma neanche ignorante della loro ignoranza, o di condividerle con loro entrambe. A me stesso e all’oracolo, risposi che mi conveniva rimanere com’ero. …
Forte di RIVOLI – archivio a.m. 1988
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1) Cherefonte: filosofo greco intimo amico di Socrate
2) Pizia: sacerdotessa di Apollo che a Delfi dava i responsi dell’Oracolo.
Platone – APOLOGIA DI SOCRATE
Bur Classici 1999 - estratti da pgg. 113–119 • Trad. Maria Michela Sassi – tutti i corsivi a.m.